E noi, che cosa dobbiamo fare?

C’è un peccato di cui nessuno (o quasi) si confessa mai. Ed è la tristezza, il pessimismo sistematico di chi non è mai contento, l’irritazione permanente di chi è sempre di cattivo umore, la mancanza di ogni entusiasmo, la noia e l’indifferenza di quelli che hanno per insegna: “Non mi scocciare”.

Chi non è mai contento non è un buon cristiano. Perché la gioia fa parte della fede, nasce dalla speranza e costituisce di per sé una squisita forma di carità.

Ci sono troppi cristiani tristi in giro. C’è anche chi pensa che gioia e buon umore non si addicano alla “serietà” della fede. Come se Dio fosse nemico dei cuori lieti. Come se il nostro Dio fosse un Dio senza sorriso.

C’è chi immagina la fede come una specie di “spegnitoio” che finisce col soffocare ed estinguere ogni gioia di vivere. La “buona novella”, la “lieta notizia” del Vangelo, per certi cristiani è diventata un sorta di “handicap” che impedisce di “godersi la vita”…

Se la fede non ci rende lieti, non è vera fede. Vuol dire che non abbiamo capito bene che cosa crediamo. Oppure che in realtà non ci crediamo. Se nella nostra vita c’è più tristezza che gioia, non siamo buoni cristiani, malgrado tutte le devozioni, le pratiche di pietà e le opere buone che possiamo compiere.

Certo, la vita non è sempre allegra, lo sappiamo tutti: di cose che non vanno ce ne sono sempre, piccole e grandi. Eppure il Vangelo è invito alla gioia proprio in mezzo a tutte le cose che “non vanno” nel mondo, perché “il Signore è vicino” (cf 2ª lettura) ed è il Signore il fondamento più solido della gioia, per chi crede in lui. La gioia più grande e più profonda nasce infatti dal sapere-e-credere che Dio ci ama e ci è vicino: questo è il messaggio del Vangelo, questo è il senso di tutta la vicenda umana di Gesù.

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Proprio dal fatto di riporre in Cristo la nostra speranza può e deve nascere in noi quella sincera ricerca della giustizia e dell’amore fra gli uomini che comincia sempre e di nuovo da noi stessi (“E noi, che dobbiamo fare?”) e dalle persone che ci stanno vicine, secondo l’insegnamento di Giovanni il Battista (cf Vangelo).

Chi è scontento e di cattivo umore difficilmente si mostra sensibile alle necessità e ai problemi degli altri. E d’altra parte, la gioia che viene da Cristo non è egoistica: inaridisce e muore se si vuole tenerla per sé; vive e cresce nel comunicarla ad altri (“Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”, At 20,35).

C’è una specie di “ricetta della gioia” che dice così: per essere lieti ci vogliono tre cose: qualcuno da amare, qualcosa da fare, qualcosa in cui sperare.

Senza amore non c’è gioia. Un cuore arido e chiuso nell’odio non può essere gioioso. Finché “ce l’abbiamo con qualcuno” non possiamo essere contenti. Finché non sappiamo perdonare, non possiamo essere lieti. Così non c’è gioia senza un’attività, una creatività, un “far qualcosa”, possibilmente con interesse e con amore. Dall’inedia, dal non far niente e non essere utili a nessuno non nasce gioia, ma noia. E la gioia più intima si ha quando a queste due cose si aggiunge la terza: l’attesa e la speranza di qualcosa di bello che deve ancora venire…

Ecco uno schema-programma di spiritualità cristiana particolarmente adatto per l’Avvento: amare Dio e il prossimo, darsi da fare per portare un po’ di gioia attorno a sé, nell’attesa dell’incontro definitivo con il Signore.

(elledici.com)

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