ottobre 2025 – 27a domenica t. ord.

Ab 1,2-3; 2,2-4 / 2Tm 1,6-8.13-14 / Lc 17,5-10

Accresci in noi la fede!

(Lc 17,6)

Si fa presto a dire: “Bisogna aver fede!”. Come del resto si fa presto anche a dire: “Io sono credente”. Salvo poi ad accorgerci – o forse a non accorgerci… – che in realtà siamo un po’ tutti “gente di poca fede” (Lc 12,28), pur dichiarandoci credenti.

“Bisogna aver fede…”. Sì, ma con tutte le cose che non vanno nel mondo e nella vita, con tutte le ingiustizie, le guerre, le disgrazie, la droga, gli inquinamenti, i tumori… come si fa ancora ad “avere fede”? Fede in chi, o in che cosa? Se uno si guarda attorno, o se si cerca di capire qualcosa di come va il mondo, è più facile approdare allo scetticismo che non alla fede.

“Fede” è una parola che implica sempre qualcosa di bello in cui “credere”, qualcosa di importante e di buono per cui val la pena impegnarsi a fondo, qualcosa di “positivo” (= bene) capace di compensare e superare il “negativo” (= male) del mondo e della vita.

Ma in chi o in che cosa si può ancora credere ai nostri giorni, al di là dei comuni piccoli ideali concreti e privati di salute, benessere e così via? La storia – antica e recente – sembra ormai aver distrutto tanti di quei miti, sogni, ideali e illusioni, da non lasciare più spazio se non all’indifferenza e al pessimismo.

Oppure “aver fede” vuol dire non farsi illusioni a proposito di questo mondo e puntare tutto sull’“altro”? Ma quale altro? E chi ci dice che esiste davvero? E che garanzie abbiamo di trovarvi qualcosa di meglio che in “questo”? O non sarà proprio la più perfida delle illusioni, quella di aspettarci in un ipotetico “aldilà” qualcosa che compensi e aggiusti tutte le cose sbagliate e le delusioni dell’“aldiqua”?

Forse alla nostra generazione appaiono più forti le ragioni dell’incredulità e dello scetticismo che non quelle della fede. O forse, in verità, è sempre stato così (fin dai tempi del profeta Abacuc: cf 1ª lettura), anche se in altre epoche gli usi e costumi sociali erano più fortemente marcati dall’impronta religiosa. Non perché sia obiettivamente “più ragionevole” non credere in Dio, o non credere – più specificamente – nel Dio “Padre del Signore nostro Gesù Cristo” (2Cor 1,3). Quello che diciamo nel “Credo” – espressione ufficiale della fede cristiana – non è affatto irragionevole; e neanche “gratuito”, senza fondamento, frutto di fantasia o di impostura. Ma il crederci davvero è molto impegnativo.

In termini cristiani, “aver fede” significa vedere il mondo e la vita dal punto di vista di ciò che è avvenuto nel mondo con Gesù di Nazaret crocifisso e risorto: sintesi e simbolo di tutto il mistero del rapporto tra “bene” e “male”.

Fede è scommettere sulla positività dell’esistenza umana (malgrado tutto) e sulla positività della storia del mondo e dell’intera realtà, sul fondamento e nel nome di Cristo risorto. Ma questo implica che non ci rifugiamo mai nel disimpegno di fronte ai problemi del mondo e dell’umanità, con la scusa che tanto non val la pena, che il mondo non migliorerà mai, ecc. ecc.

“Se aveste fede quanto un granellino di senapa…”. Ma la fede vera (non le sue innumerevoli contraffazioni più o meno pie) è incompatibile con ogni strumentalizzazione a scopo di prestigio o di potere, in chiave personale, politica o religiosa e “spirituale”.

Fede è “cooperare con tutte le forze alla crescita del regno di Dio” (cf colletta alternativa), cioè impegnarsi a fondo nella ricerca e nell’affermazione di tutto ciò che è vero, giusto, bello, buono pur sapendo che questa strada passa inevitabilmente per la via della croce (cf 2ª lettura: “Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo…”).

Con la consapevolezza umile e gioiosa che tutto ciò che è buono giusto bello e vero, in ultima analisi viene da Dio e conduce a Dio, davanti al quale noi siamo e restiamo sempre “servi inutili” chiamati da lui a essere strumenti della sua grazia, sicuri e fiduciosi solo per la certezza della sua grandezza e bontà.

(LDC)

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