Durante il servizio, vengo chiamata d’urgenza nel reparto intensivo, dove è stato ricoverato un uomo di cinquantadue anni che ha subito un grave incidente agli occhi. Nel letto non si muove, sembra apatico.
Chiedo informazioni e vengo a sapere che si è sparato alla testa. Il cervello però è rimasto illeso. Mentre chiede l’iniezione per morire, mi rendo conto che non è malato solo nel corpo, ma anche nell’anima. Con lui è necessaria tanta pazienza e comprensione.
Durante la visita chiede continuamente l’iniezione, vuole morire.
L’operazione è complicata, e dura fino alla notte. Non è più possibile salvare un occhio, l’altro è gravemente danneggiato. Rimane nel reparto di terapia intensiva per una settimana. Ogni giorno m’informo sulla sua salute e insieme a un’amica prego con fede per lui. Viene portato nel mio reparto. Tutto il giorno c’è tanto lavoro, ma prima di andare a casa mi fermo a salutarlo. Accanto al letto gli faccio una domanda: «Lei sa chi sono io?». E lui, prontamente: «Non vedo, ma penso sia la dottoressa che mi ha operato. Durante l’operazione ho sentito un amore grande».
Gli prometto di fare il possibile per salvare il suo occhio, pur non essendo assolutamente certa di potercela fare. Quasi per miracolo invece, una mattina, il paziente dice che vede un po’ di luce. Ogni giorno la sua vista migliora, finché guarisce completamente. L’occhio è salvo!
Dopo qualche mese è venuto a ringraziarmi e mi ha detto che aveva ritrovato di nuovo la strada verso Dio. Nel suo matrimonio tutto ora è in ordine, e adesso è molto felice, anche con un occhio solo.
Gli dico, scherzando, che doveva perdere un occhio per vedere meglio.
E.S. – Italia