Io sono la porta delle pecore (Gv 11,7)

Bisogna riconoscere che il discorso di Gesù, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, ha un tono abbastanza misterioso. È come una specie di «messaggio cifrato»: il recinto, le pecore, la porta, i ladri, il pastore… Di chi parla Gesù? Che cosa vuol dire? E quale interesse può avere per noi questo discorso?

Evidentemente queste immagini erano assai più familiari ai contemporanei di Gesù che non a noi. Ma al di là delle immagini (tratte dall’ambiente del tempo) questo discorso di Gesù contiene un’affermazione molto forte, posta come valida per tutti e per sempre.

Riprendendo un linguaggio già presente nell’Antico Testamento – dove «pecore» e «pastori» stanno a rappresentare rispettivamente il popolo, la gente in genere, e le sue guide o i suoi capi – Gesù afferma che lui solo è il vero «pastore» e lui solo è il tramite di riferimento obbligato («la porta delle pecore») per la corretta impostazione di ogni rapporto di «guida» nei confronti degli altri.

In altre parole: Gesù afferma di essere il solo in grado di dare agli uomini ciò di cui hanno veramente bisogno.

Tutti gli altri capi, guide, «leaders» e maestri di ogni genere (sia in campo religioso che politico o culturale) svolgono una funzione positiva nei confronti dell’umanità, se e nella misura in cui dicono, insegnano e fanno cose che sono in linea, in armonia, con ciò che ha detto, ha insegnato e ha fatto lui. Altrimenti – malgrado le apparenze, malgrado l’eventuale successo e popolarità – in realtà fanno più male che bene: alla fin fine risulteranno «ladri e briganti», non «pastori».

È una «pretesa» molto impegnativa questa. Chi tra gli uomini potrebbe avere la presunzione di affermare una cosa simile?

E infatti solo Gesù può permettersi di parlare a questo modo: perché lui solo è «la Parola» di Dio in carne e ossa, lui solo ha dato la vita per tutti, lui solo è risorto da morte, lui solo è «il Signore».

Per questo possiamo fidarci di lui, «ascoltare la sua voce» e «seguirlo» (Vangelo); anche quando si tratta di «sopportare con pazienza la sofferenza», come ha fatto lui (cf 2a lettura). Per questo possiamo scommettere l’intera nostra vita su di lui, «pastore e guardiano delle nostre anime» (2a lettura).

E in realtà è proprio questo il «programma» sul quale è stata impostata la nostra esistenza, quando noi siamo stati battezzati. Il fatto stesso di essere stati battezzati – e più ancora dal momento che il nostro battesimo è stato «confermato» nella cresima – costituisce per ciascuno di noi il segno concreto di una specifica «VOCAZIONE» ricevuta da Dio: quella di essere discepoli e testimoni di Gesù Cristo, di proclamare con la vita e con le parole la «verità» di Gesù Cristo e del suo Vangelo, ognuno nel suo ambiente e secondo le sue possibilità.

Ma non c’è un solo modo di rispondere a questa vocazione: ce ne sono tanti… Tra gli altri, quello di fare della fede stessa, della preghiera, del servizio alla Chiesa, della predicazione del Vangelo, quasi una «professione» a tempo pieno: in fondo è quello che si intende, quando si parla di «vocazione» al ministero sacerdotale o alla vita religiosa.

Ma non pensiamo alla «vocazione religiosa» come a una specie di «marchio» che uno si ritrova addosso fin dalla nascita. In realtà si tratta di una scelta, da fare a occhi aperti, con libertà e consapevolezza.

Anche se, per la verità, ai nostri giorni si direbbe che «FARSI PRETE» non è una professione di moda… Non rappresenta più, come in altri tempi, una «posizione sicura» nella società. Non è una soluzione tutto sommato abbastanza comoda per chi non sa che altro fare. Non è un mestiere facile. Non si guadagna molto bene. E poi, c’è la questione del celibato…

Ci sono mille ragioni per non farsi prete. Infatti ce n’è una sola per farsi prete: ed è Gesù Cristo. Al di fuori di una fede convinta e forte in Cristo risorto, il «mestiere di prete» non avrebbe senso. Ma non avrebbe senso neanche chiamarsi «cristiani».
(da Elledici.com)

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