Oggi sono proprio stanco. Tutta la mattinata sono andato per la città a visitare gli ammalati; sono tornato a casa per il pranzo e ho pregato Dio che nessuno mi cercasse. Il sole equatoriale, il sudore che disidrata, spesso la mancanza di igiene nelle case: tutto questo mi ha procurato una stanchezza enorme. Quasi non riesco neanche a mangiare. Sto per andare a fare un pisolino, quando due signorine vengono a chiedermi di andare subito perché una ragazza sta per morire. Chi mi accompagna mi dà alcune notizie sulla sua salute. Mentre ci avviciniamo alla casa, mi accorgo che entriamo nel quartiere delle prostitute. La ragazza è una di loro e si chiama Eliete. Sulla porta incontro il medico che sta uscendo. «Dottore, è grave?». «Padre, io ho fatto la mia parte – mi risponde -, adesso lei faccia la sua, perché questa povera giovane al massimo avrà due o tre giorni di vita. Stia molto attento, però, perché si tratta di una malattia venerea contagiosa».

Trovo una giovane diciottenne fisicamente disfatta con la pelle purulenta in quasi tutto il corpo. Hanno chiamato il medico troppo tardi. Alcune ragazze della parrocchia si sono prese cura di lei. La cameretta è pulita, il lettino tutto bianco. Mi seggo, conversiamo un po’, cerco di ascoltarla con tutta l’attenzione. Mi racconta la sua storia, dolorosissima, penosa: non ha mai sperimentato l’amore. E stata spinta a quella vita per sopravvivere. Adesso sa che tra breve si presenterà a Dio e vuole confessarsi e ricevere l’Eucaristia: «Voglio morire come una figlia di Dio, anche se sono una grande peccatrice».

Sono sicuro che in lei non c’è peccato e, se ci fosse stato, per tutto quello che ha patito è così purificata che andrà dritta in cielo. Mi vengono in mente le parole di Gesù: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31). Sono parole rivoluzionarie e sento che sono proprio vere.

Prima, però, di darle l’unzione degli infermi, ricordando le parole del medico, mi sono sentito come paralizzato dalla paura: «Se la tocco, prenderò facilmente la malattia? Forse i miei amici crederanno che è stato conseguenza di un atto di carità, ma i parrocchiani e anche quelli della mia patria cosa penseranno di me?». Tormentato da questi pensieri le do la comunione e quasi decido di non amministrarle l’unzione degli infermi. Ma una voce mi rimbomba dentro e mi dice forte: «Sei sacerdote per tutti, anche per lei. Non puoi negarle quanto Gesù le ha guadagnato con il suo sangue!».

Mi torna alla mente la scena della peccatrice che ha baciato i piedi di Gesù nella casa di Simone e Gesù non li ha ritirati. Cerco di vincere la paura di perdere la buona fama e faccio quanto dovevo. Vedo sorridere la giovane. Gioisco anch’io e rimango con lei più a lungo. Parliamo di Gesù dinanzi al quale siamo tutti uguali. Lei adesso è pronta anche per l’incontro finale, ma non riesco a convincermi che quella giovane deve morire nel fiore degli anni senza aver sperimentato l’amore di Dio. «E se Gesù ti guarisse, cosa farai?», le chiedo. «Tornerei a casa dai miei e direi loro che è meglio morire di fame che vivere in quest’inferno». Chiediamo insieme «nel nome di Gesù» la grazia della guarigione.

Arrivato a casa, come prima cosa, cerco di disinfettarmi per bene e faccio un bel bagno, nella speranza di allontanare da me ogni pericolo di contagio.

Dopo qualche tempo le due ragazze che l’assistevano mi portano la bella notizia che Eliete è guarita, ha abbandonato per sempre quel luogo di dolore ed è tornata a casa da suo padre.

E.P. – Brasile