Un giorno ero seduta davanti al tabernacolo della cappellina in ospedale, quando alle mie spalle ho sentito il singhiozzo di una donna che veniva a consegnare ad Allah la sua angoscia. Era una musulmana che conoscevo molto bene, perché il figlio Mohamed era ricoverato nel reparto dove lavoro. Fin dalla sua nascita, quella donna ha cominciato un interminabile calvario. Ricoveri e dimissioni senza sosta per “arginare” una malattia metabolica diagnosticata pochi giorni dopo il parto. Mi sono alzata dalla sedia e le ho chiesto il motivo del suo pianto: a bassa voce mi dice che suo marito vuole da lei un figlio maschio e sano. Tutte e due conoscevamo bene le scarse possibilità che questo accadesse. La invito a pregare, io da cattolica e lei da musulmana. Ci lasciamo con questo patto, dopo esserci abbracciate.

Alcuni mesi dopo, mi ritrovo ancora a pregare in cappella. La scena si ripete: ancora il pianto di una madre alle mie spalle. La stessa donna, la stessa madre, ancora più disperata perché questa volta nel suo grembo si sta formando una nuova vita. La abbraccio forte perché capisco, anche se nessuna delle due pronuncia una parola. So solo dirle: “Preghiamo, chiediamo ad Allah e a Dio Padre che faccia nascere il bimbo sano”. Passano i mesi e Mohamed viene ricoverato più volte durante la gravidanza della madre. Lei è serena, io un po’ meno. La mia professione sembra prevalere sulla mia fede, ma non smetto di sperare. Anche il volto di quella donna ha bisogno della mia speranza.

Arriva il mese di dicembre e non vedendola più penso al peggio. Un giorno di metà gennaio la vedo entrare in ospedale con un fagottino tra le braccia. Mi avvicino e la guardo negli occhi che mi sembrano stranamente lieti. Sotto la copertina c’è una bellissima bambina che dorme pacifica. Guardo la mamma che esclama: “È sana!”. Con le lacrime agli occhi ringrazio Dio e la Madonna. Abbraccio quella donna così forte e coraggiosa, mentre lei mi sussurra all’orecchio: “È nata il 25 dicembre”.

Suor Donatella Lessio – Betlemme (tratto da Avvenire)