Dopo la decisione di donare la mia vita a Dio, incontrai l’incomprensione e l’ostilità soprattutto di amici e familiari. Un giorno venne a trovarmi in seminario un ex compagno di scuola che studiava medicina. Mi ripeteva, con tanto affetto, che se avessi avuto bisogno di soldi per fare del bene lui mi avrebbe aiutato, ma dal seminario dovevo uscire.
Cercava di farmi capire che la vocazione è una forma di alienazione e non mi vedeva in quel giro. Da parte mia, non sapevo come spiegargli che ero felice perché mi ero sentito amato, che la vocazione non era altro che la presa di coscienza di Qualcuno che mi amava e aveva dei progetti su di me per il bene degli altri.
Dopo decenni, quel mio amico, che ormai aveva fatto un percorso di vita travagliato anche se con successo, mi raggiunse nella missione dov’ero. Gravemente malato, aveva sentito di dovermi chiedere scusa per quel tentativo di distogliermi dalla vocazione. «Tu sei felice – mi disse -. Ed ora anche io, con la malattia, vedo ciò che prima non vedevo».
D. C. – Portogallo