Come magistrato in una località ad alta densità mafiosa, interrogavo da ore un detenuto che ne aveva combinate di grosse. Passata l’ora di pranzo, mi fu chiesto se desideravo mangiare. Accettai, a patto di portare qualcosa anche per il detenuto. Quel semplice gesto fu per lui un piccolo shock. Quasi non ci credeva.
Un’improvvisa paura di trovarmi a tu per tu col pregiudicato in quel momento di pausa consigliava di allontanarmi. Ma ecco un altro pensiero: «No, se sto qui a voler bene a questo mio prossimo, non ho niente da temere». L’interrogatorio proseguì con lo stesso atteggiamento nei suoi confronti: cercavo di fargli capire la gravità di quello che aveva fatto, ma senza giudicarlo, parlandogli serenamente.
Tempo dopo mi giunse una sua lettera dal carcere. Qualche richiesta di commutazione della pena? Niente di tutto questo. Solo un lungo sfogo col racconto delle proprie miserie e la richiesta di comprensione. Strano che la scrivesse proprio a me che avevo emesso un giudizio di condanna nei suoi confronti. Evidentemente aveva colto qualcosa d’altro.
Elena – Italia